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Algocrazia (Guerini Next) – La crisi della narrazione (Einaudi)

Algocrazia (Guerini Next) – La crisi della narrazione (Einaudi)

Due letture stimolanti. Due pensatori che sanno guardare oltre il mainstream seminando dubbi, sollevando domande tanto difficili, quanto necessarie. Algocrazia è un viaggio nel mondo di un’intelligenza artificiale aumentata che rivoluziona modi di pensare, di agire, di essere nelle aziende di domani. La crisi della narrazione infrange il mito dello storytelling relegandolo a mero consumismo, nulla a che vedere con le antiche narrazioni attorno al fuoco da cui nasceva il senso di comunità e trovava spazio la ricerca di significato di cui oggi si avverte la perdita. Due testimoni di una modernità che spaccia per progresso tutto ciò che fa business e il consumo come fonte di identità.

Recensioni di Raul Alvarez

ALGOCRAZIA

Di Francesco Donato Perillo, filosofo di formazione (allievo di Aldo Masullo), ieri dirigente HR nel gruppo Finmeccanica, oggi docente universitario e saggista, ho letto quasi tutti i suoi articoli pubblicati su Persone e Conoscenza. Riflessioni ricche di ispirazione che fanno di questo autore uno dei rari casi in cui il pensiero filosofico e quello manageriale s’incontrano felicemente. L’autore ha una visione umanistica che induce imprenditori e manager a guardare oltre il breve termine, a porsi domande dirompenti, a riflettere su opportunità e rischi della transizione digitale, oggi al centro di un infuocato dibattito. E al contempo, invita i filosofi a considerare le difficoltà che i manager stanno attraversando in quest’era dove è la concezione stessa del lavoro a dover essere ripensata, a cercare risposte a domande scomode, a lasciarsi alle spalle modi di pensare e gestire l’impresa sino a ieri rassicuranti e che oggi non trovano più spazio.

Leggendo i suoi articoli mi sono sempre chiesto come mai quel patrimonio di riflessioni non sia confluito in un libro di più ampio respiro. Oggi la risposta è arrivata, si chiama Algocrazia. 140 pagine che, con stile breve, dal taglio giornalistico, riesce a dire più di tanti manuali dalla mole esuberante e la lettura estenuante. In Algocrazia confluiscono articoli e saggi pubblicati in varie riviste, aggiornati per stare al passo dei rapidi cambiamenti indotti da una tecnologia che muta velocemente. Ciò che ne viene fuori è un’ampiezza di riflessioni sul ruolo del manager e dell’impresa in questa fase di profonde trasformazioni. Già in passato Gary Hamal, con nel suo celebre Il futuro del management (2008), aveva sollevato la questione, oggi  accelerata dagli sviluppi di un intelligenza artificiale sempre più performante e pervasiva che suscita entusiasmi e timori.

“Di fronte al potere digitale, manager e dipendenti rischiano di venire assoggettati alle macchine. Gli algoritmi prendono potere autoalimentandosi con i Big Data. Se essi saranno svincolati dalla supervisione e dalle decisioni umane rischiano di diventare “i nuovi dirigenti” di domani, dotati di capacità computazionali, di analisi e decisioni sovraumane” In altre parole, assisteremo alla nascita di un’algocrazia. A furia di passi avanti si rischia insomma di tornare indietro, “alla cultura gestionale fordista non più esercitata dalla catena di montaggio, ma dalla pervasività degli algoritmi di sistemi sempre più autoevolventisi, che non ci metteranno in grado di dominare la tecnologia, usandola come mezzo anziché come fine”.

Che ne sarà dell’esperienza e dell’intuito dei manager, si chiede l’autore. Potranno ancora avere l’ultima parola su decisioni sensibili quali licenziare, dismettere, ristrutturare? Avranno facoltà di agire in deroga alle decisioni dell’algoritmo? E ancora, chi gestirà le persone? L’ufficio acquisti, dal momento che una qualunque collaborazione, dal facchino al progettista software, si può  già oggi acquistare on line al pari di una commodity, e contrattualizzare con un ordine o un voucher?  I lavoratori si useranno a consumo quando servono se servono? “Un’impresa del genere non avrebbe la spina dorsale necessaria per radicarsi sul territorio”, tanto meno per tenere in vita il senso d’appartenenza. E che dire del grande tema dello smartworking? “Da ex responsabile HR, nativo analogico, resto un assertore della presenza, non quella marcata con il badge, ma una presenza mentale e relazionaleche è l’anima dell’impresa. Il libro si inoltra poi in riflessioni  sulla trasformazione digitale e gli impatti sul lavoro, sulle nuove competenze, sulla governance, sulla formazione oggi alimento primario per restare in pista. Ma una formazione diversa da quella di ieri, non ridotta a pillole o app, una formazione che impatta sui modelli mentali consentendo alle persone di mettersi alla prova di fronte ad attività e situazioni impreviste, non affrontate nella routine di ruolo; di sperimentare la propria percezione di auto efficacia nelle sfide poste dalla complessità, dall’ambiguità e dall’incertezza e, al tempo stesso, che istilli nei collaboratori la convinzione sulla necessità del contributo umano all’efficacia del processi.

Le ultime pagine lasciano spazio a una disquisizione squisitamente filosofica. “Davanti all’affermarsi nell’economia, nella società, negli algoritmi dell’IA, di un linguaggio e un pensiero unico, meramente calcolante, dov’è l’essere?  Domanda che si era già posta Martin Heidegger nel lontano 1959. Ad essere inquietante non è tanto la possibilità che il mondo sia dominato dalla tecnica, quanto  il fatto che noi umani non siamo ancora capaci di raggiungere, con un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta emergendo in questa epoca e che spinge a riconsiderare ciò che è  alternativo al dominio agli algoritmi, la valorizzazione della singolarità dell’umano: il sentire vitale che possiamo definire il bios, l’esperire, il provare, l’errare, l’immaginare, il trascendere, la spinta ad andare oltre, dunque l’essere. È per questo che la “Macchina-uomo”, intelligente e affettiva oltre ogni possibile upgrading, porterà con sé il limite di non poter nascere, né morire, come sostiene il filosofo Aldo Masullo. Di non ammettere perciò l’imperfezione. Di epurare il sentire vitale, la motivazione, il desiderio, il sogno: inciampi per la macchina, linfa vitale per l’umano”.

Disquisizioni viscerali e affascinanti su cui confrontarsi, e proprio per questo di valore, perché lasciano spazio a quelle virtù inestimabili, oggi a rischio estinzione, che sono il dubbio e il confronto dialettico: scintille generative di quel pensiero critico senza il quale l’essere perde il suo quid di umano.

 

LA CRISI DELLA NARRAZIONE

Lo storytelling va di moda. Ma la sua onnipresenza è un segnale d’allarme sulla perdita di quella che un tempo era la narrazione comunitaria, fonte di scambio autentico, di conoscenza di sé e degli altri. “Da bussola capace ieri di dare senso all’esistenza di una comunità, le storie sono diventate una merce come tutte le altre. Ridotte ad ancelle del capitalismo, trasformate in consumo d’informazioni, in balia della scatola nera algoritmica. La narrazione, un tempo, rendeva possibile l’emergere di una comunità di persone, capaci di dare un senso alla collettività. Lo storytelling, di contro, dà forma solo ad una community che è la versione mercificata dall’antica comunità. Il fuoco attorno al quale si raccoglievano le persone per ascoltare i racconti si è spento, sostituito dagli schermi digitali che isolano gli esseri umani facendone dei consumatori. Se la vita non è più un che di narrabile, anche la saggezza deperisce”.

E che dire della politica? “Lo storytelling è qualcosa di radicalmente diverso da qualsiasi visione politica che si protende verso il futuro e che offra agli esseri umani senso e orientamento. Le prassi narrative politiche aprono una prospettiva per un nuovo ordinamento delle cose, raffigurano mondi possibili. Quello che ci manca oggi sono proprio le narrazioni che aprono un futuro, le narrazioni che ci aprono alla speranza. Oggi ci trasciniamo da una crisi all’altra. La politica si è ridotta a problem-solving. Solo narrando è possibile aprire il futuro”.

Parole caustiche e dolenti di Chul Han, filosofo di origine coreana, oggi fra i più apprezzati per la sua capacità di guardare oltre l’effimero, il conveniente e il necessario. I suoi libri toccano temi emergenti (dalla dittatura silente dell’intelligenza artificiale, alla virtualizzazione dell’essere, alla società che anestetizza quel dolore che, se accolto con forza e coraggio, aiuta a crescere. Con quest’ultimo libro Han smonta il mito dello storytelling, annunciando la crisi della narrazione autentica. Una riflessione profonda e complessa che denuncia  il mainstream e spinge a guardare oltre, in quello spazio libero dove arriva lo sguardo dei filosofi.