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L’industria della felicità

L’industria della felicità

Autore: William Davis

Editore: Einaudi, 2016, pp. 238, € 20.00

Genere: saggio sociologico

Chiave di lettura: come le grandi imprese e la politica ci vendono il benessere

Frase chiave: “Le affermazioni su mente, cervello, corpi e attività economiche si mescolano fra loro, senza particolare attenzione alle questioni filosofiche che implicano. Si intravede la possibilità che l’ottimizzazione dell’essere umano sia formulata in un unico indice. Chi ha le tecnologie per produrre ciò che serve alla felicità sono nella posizione di esercitare una considerevole influenza, mentre i potenti sono sempre più allettati dalle promesse di queste tecnologie”.

 


Cosa spinge oggi tante organizzazioni a farsi carico della felicità dei dipendenti? Ad incentivarne il pensiero positivo esorcizzando quello negativo? La risposta è semplice: il business. Perché l’infelicità, si sa, va a scapito del profitto. Per questo bisogna tenerla sotto controllo. E oggi, con i potenti mezzi a disposizione delle neuroscienze, è più facile monitorare i processi fisiologici e mentali, radiografare i sentimenti per arrivare al cuore dell’agire umano. Semplici applicazioni su smartphone rilevano le variazioni di umore. Gli orologi smart, progettati da Apple e Google, misurano lo stress. C’è persino chi, come British Airways, sta sperimentando “la coperta della felicità” che, attraverso un monitoraggio neuronale, registra il benessere del passeggero. Mentre le aziende accumulano dati sul comportamento umano, “l’economia della felicità” li usa per elaborare precise mappe delle aree del cervello attivate da determinati stimoli per scoprire cosa riduce lo stress e favorisce il benessere fisico e mentale. Ma non illudiamoci, tutto questo human big data non è certo a servizio della persone e dei loro bisogni: è finalizzato, al solito, a precisi interessi politici ed economici.

È questa la tesi sostenuta da William Davis, sociologo ed economista politico inglese, in L’industria della felicità. Un libro ricco di dati e argomentazioni convincenti, anche se talvolta portati all’estremo. Davis sfodera il suo je accuse contro l’uso improprio che le aziende fanno delle tecniche di self-help e della Psicologia positiva, specie quando enfatizzano il detto “la felicità è una scelta”. Un principio che può torcersi contro l’individuo, reo di essere con il proprio pensiero Negativo fautore di insuccessi personali e aziendali. Un’ipotesi infondata che ignora il contesto che contribuisce a diffondere pessimismo”. Quella che si va affermando è una cultura del “Se vuoi puoi”, del “Nulla è impossibile”, dove la felicità è un valore irrinunciabile, prerogativa dei vincenti. Mentre il pessimismo è considerato l’anticamera del fallimento. Le ricette per incentivare l’ottimismo non mancano. E talvolta finiscono persino per degenerare in soluzioni aberranti, come quelle proposte da Tony Hsieh, noto guru americano. Il super-coach della motivazione sostiene che le aziende dovrebbero reclutare “manager responsabili della felicità aziendale” affinché sul lavoro nessuno possa sfuggire all’imperativo: “Sorridi, che la vita ti sorride”. E se qualcuno dovesse mostrare scarsa fiducia verso questi programmi di allenamento alla felicità? La sua contromisura è implacabile: licenziare il 10% dei dipendenti, affinché l’altro 90% si impegni ad essere più felice e produttivo. Una soluzione drastica per frenare un attegiamento negativo che può intaccare la salute e il business. Secondo i dati di una recente indagine Gallup, assenteismo, malessere e burnout costano all’economia americana 500 miliardi di dollari l’anno. Per questo il benessere organizzativo diventa un obiettivo da imporre con tenacia. Quanto all’etica, il problema sembra essere giudicato secondario. L’importante è “costruire la felicità aziendale” perché l’obiettivo è: continuare ad essere produttivi e vincenti. Davis afferma che stiamo assistendo ad un ritorno al taylorismo, con la differenza che oggi “per influenzare le persone, le aziende hanno a disposizione strumenti più potenti, invasivi e pervasivi”. Allora questa “politica della felicità” altro non è che una nuova frontiera del controllo sociale e dell’assoggettamento alla dittatura del profitto.